Antonio Marras s’ispira al cinema.
Sono solo un narratore, e il cinema sembra essere il mio mezzo. Mi piace perché ricrea la vita in movimento, la esalta. Per me è molto più vicino alla creazione miracolosa della vita che, per esempio, un libro, un quadro o la musica.
Non è solo una forma d’arte, in realtà è una nuova forma di vita, con i suoi ritmi, cadenze, prospettive e trasparenze.
È il mio modo di raccontare una storia.”
(Federico Fellini)
Io uso la moda per raccontare e l’ho imparato andando al cinema.
Il cinema, fonte inesauribile di storie, di sogni, di mood, di personaggi, di costumi, di set, di racconti di esistenze eccezionali o di straordinaria normalità.
Il cinema è indispensabile compagno di vita. E ancora di più per me, per il
lavoro che mi sono ritrovato a fare. Io, onnivoro di cinema, ho trascorso la mia adolescenza seduto tra il Selva e il Miramare di Alghero vedendo e rivedendo in loop film che ancora ora fanno parte del mio vissuto. I personaggi sono famiglia, comprimari ai parenti, le loro storie sono le mie storie, le loro vicende le ho provate anch’io e quello che sono è anche il risultato di quello che ho visto al cinema. Intimo e corale, condivisione e momento di interiorità, come nessun’altra forma
di spettacolo lo è. Quando si spegne la luce e parte la musica con i titoli di testa
è come se ci imbarcassimo in una navicella spaziale che ti porta altrove e niente importa più.
Credo profondamente in quel linguaggio essenzialmente visuale che è il cinema e arrivo a dire che un film dovrebbe essere compreso dagli spettatori anche se questi non conoscessero la lingua originale. Ritengo che il cinema sia forma d’espressione molto più potente del teatro… e anche della televisione, perché è reazione collettiva. Il grande schermo ricopre un ruolo in questo fenomeno. Quando la gente guarda un film al cinema è più concentrata.” (J. Losey)
Quando, nel 1967, ad Alghero è sbarcata la troupe di Joseph Losey alla ricerca di un set ideale, io avevo sei anni ma mi ricordo, eccome se mi ricordo. E con il tempo il film, le star, gli avvenimenti, le comparse del luogo, i pettegolezzi, i tentativi di rapimento, il mega yacht Kalizma della coppia stellare con cani, bambini, cuochi, capitani e marinai al seguito, i gioielli di Bulgari della Diva, gli abiti realizzati appos ta dall’Atelier Tiziano da un giovane Karl Lagerfeld, copricapi di Alexander
da Parigi, il cibo fatto arrivare direttamente da Londra con l’aereo ogni giorno, il tanto alcool, le liti fra i due protagonisti, la falesia di 186 metri di Capo Caccia e
la villa bianca stratosferica a picco sul mare che, agitato, continua a sbattere
sugli scogli e il vento, hanno assunto un’aurea di mito.
Da poco sono incappato nel docu-film di Sergio Naitza “L’estate di Joe, Liz e Richard”, che ricostruisce la mitica lavorazione di un film destinato a diventare, nel bene e nel male, un grande cult. E allora mi sono immerso in quell’estate calda dove il confine tra realtà e finzione, tra vero e falso, tra ricostruito ed esistente, tra recitato e rivelato, tra immaginario ed effettivo era solo un flebile soffio di vento.
Tra kaftani evanescenti e ondivaghi, abiti couture, vestaglie, tailleur sartoriali strizzati in vita, look maschili over, spolverini, pencil skirt, tubini e abiti da grand soirèe drammatici e divini.
Abiti croccanti dai colori dei macaron. Pizzi chantilly, valenciennes, macramè, intarsi, ricami, perline, paillettes tutte a ruches, tulle plissè e flocckati, pied de poule, vichy, prince de galles, pois e righe, gessati e damaschi. E cotoni. Mazzi di rose e rose piazzate, onde, stampe acquellate e fanè.
Ecrù, sabbia, nacre, polvere e nero, tanto nero e lilla, giallo, rosa e celeste. Maglia intarsiata e tridimensionale, pelle, costumi e jersey.

Tutto insieme, un muoversi di camera, taglia e cuci di inquadrature e scene e l’arte dell’improvvisazione.

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