Se non fosse che di chef ne ho incontrati tanti, ma ultimamente sembra strano, ma come mai li trovo … tutti partenopei!
Un tempo proprio in quella zona dell’Italia, quando era ancora divisa in stati più o meno importanti ed era il periodo angioino e borbonico, chi si occupava di cucina ad alto livello erano dei cuochi professionisti che arrivavano dalla Francia e che seppero condividere, ora si direbbe “contaminare” la cucina francese con quella napoletana. Questi cuochi venivano chiamati monsieur, (signore) ma la storpiatura dialettale ne fece uscire un Monzù e Monsù, in Sicilia.
Correvano i secoli XVIII E XIX e i capocuochi delle case aristocratiche in Campania, come in Sicilia erano solo per le famiglie importanti. Ecco che molti piatti che fanno parte dei menu locali mutano il nome e si francesizzano per entrare nelle case aristocratiche e viceversa.
Il Cavalcanti, nel suo Cucina teorico – pratica, Napoli, Tipografia G.Palma, del 1839, parla di ragù (da ragout), gattò da gateau, crocchè (da croquettes) e sartù da surtout.
Ecco allora che, interessata da questa contaminazione settecentesca che proseguì anche nel secolo successivo, sono andata a trovare a Milano un ristorante in cui lo chef patron, napoletano, ha così battezzato il suo locale: Monzù Bistrot.
Alessandro Teo, un sorriso accattivante, bello aperto che ti mette gioia e dove negli occhi vedi quel brillare di chi ha la passione e che stenta a non trasmettertela con le sue parole.

Un piccolo ristorante, semplice, come semplice è la sua cucina, ma ricercata nell’elaborazione della semplicità. Cose fresche e di qualità che ti arrivano nel piatto pur con l’adeguata mise en plat, ma che denotano subito il cuore del prodotto che andrai ad assaggiare.
D’altronde, come mi spiega, i suoi antenati sono da sempre nella cucina e pur avendo lui intrapreso gli studi, laureandosi in giurisprudenza, poi mano mano gli è riaffiorato quel dna che ne fa storia di famiglia, una famiglia che già dal 1916 aveva il Ristorante Umberto, in cui i genitori e tutta la famiglia lavoravano nella cucina, quindi lui, come 4ª generazione, eccolo ora in Milano a portare quell’antica storia napoletana.
Mi racconta che da piccolo negli anni ’80 lo portavano al ristorante e li sul divano respirava ristorazione poi ecco, cresciuto, parte in un tour tra il vacanziero e l’apprendistato e va in Giappone a Tokio e in America a Los Angeles, ospite di ristoranti di amici della famiglia, per poi in Italia trovarsi a veramente provare, in un ristorante come quello di Herbert Hintner al Zur Rose a San Michele Appiano, il vero apprendistato, dove cercare di passare da grezzo a capace di immagazzinare e apprendere, elementi che diventano di vitale importanza per la passione che ormai era in lui.
Un giusto passaggio alla Scuola di Cucina Alma, incontrando anche il grande maestro Marchesi di cui ritiene i fondamenti e di cui ricorda, come quasi stigmate, alcune sue frasi ” Impara a non inventare, ma a fare 100 volte un piatto sempre uguale” “la cucina ha bisogno di cultura, continua a studiare” e così molte altre.
In questo suo ristorante in via Adige 14 a Milano la sua cucina mediterranea è fatta al momento, a parte alcuni piatti che hanno bisogno di una lunga cottura e che quindi vengono, come si dice, rigenerati, lui è in cucina e prepara tutto alla richiesta del cliente. Ora con la possibilità di un po’ di plateatico i tavoli possibili sono aumentati da quello che si poteva prescindere con i distanziamenti dati dal Covid19 e diventa un grande lavoro preparare piatto su piatto, tutto da lui ed un suo aiuto che sta imparando. In sala c’è Diana ed un giovanissimo che promette bene, entrambi danno un’accoglienza educata e con molto garbo che diventerà sempre più professionale. 
Alessandro predilige il pesce infatti poi aggiungeremo un suo piatto con ricetta, ma i suoi ricordi d’infanzia lo portano al “gateau di patate”, un classico napoletano, e il suo menu rispecchia la sua predilezione per rinnovare vecchie usanze senza però stravolgerle. Le nuove tecnologie lo permettono e così anche la parmigiana varia un po’ inserendogli i fagiolini.
Al mio tavolo lo ho fatto lavorare non tanto nella composizione del piatto, ma nella porzione perché per me deve essere sempre molto piccola, altrimenti lascio ed è uno spreco che non amo.
Gli accostamenti a volte sono inediti o forse di colore, meglio giusto per utilizzo di prodotti che trova da fornitori di fiducia, per il suo menu semplificato del pranzo, fatto di cinque differenti piatti per gli uffici vicini, tipici regionali, a prenotazione perché sempre freschi espressi, al momento. Quindi i clienti ormai sono abituati alla prenotazione anche ora con la diminuzione dei tavoli per il periodo covid19, la sera sono invece 5 antipasti, 3 primi, 4 secondi, con 4 contorni e 2 dessert.
È un bistrot come se ne trovano ma ha questo lato importante della passione dello chef patron che ci mette tutta la sua gioia nel rendere quel piatto speciale. Un localino da non sottovalutare, ma dove assaggi, come la finissima di manzo con verdure alla griglia e salsa agrodolce già ti danno un bell’inizio, il mio riso all’olio e limone con pomodorini pachino confit e capperi era interessante e poi ho assaggiato un po’ della pasta con le cicerchie, ma non ho potuto non finire, pur grande per me, il filetto con nocciole e salsa di peperoni in purezza!
Complimenti a Teo e alla sua passione per la cucina e la rivalutazione della cucina napoletana che porta avanti, da una storia di famiglia ormai molto lunga.

Trovate la ricetta di Alessandro qui!

  

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