“El xe un acronimo”
Ah! Si perché i soci ze Aldo e Giulio, Ba e Gio, do mujèr
Già era un nome strano quello del ristorante a cui il mio amico Daniele Zennaro mi aveva invitato a cui, in questo mio passaggio a casa a Venezia, avevo deciso di andare.
Algiubagiò, è un nome strano, poco veneziano e sito in una Venezia minore. Già perché nella città lagunare, per chi ci è nato come me, le zone sono ben delimitate e le fondamente nove, come d’altronde dice il nome sono tra le recenti della città. Recenti per modo di dire perché furono realizzate nel Cinquecento in seguito all’interramento della fascia lagunare compresa tra la fine della Sacca della Misericordia, per capirci tra noi della Serenissima, dove un tempo si giocavano le grandi partite di Pallacanestro e la zona di Santa Giustina, dove erano le scuole superiori come lo Scientifico.
Lunghe all’incirca un chilometro realizzate in pietra, nella famosa pianta cittadina sono il lato nord della città, il lato opposto al Canal Grande, il lato che vede l’isola di San Michele, il cimitero monumentale cittadino, e l’isola di Murano.
Nelle giornate più limpide, da questa passeggiata è possibile ammirare sullo sfondo della laguna anche il panorama dell’intero arco dolomitico del Cadore. Era proprio per poter ammirare le sue montagne natali che in questa zona stabilì la sua residenza il grande pittore Tiziano Vecellio, dal 1531 fino alla morte nel 1576. La casa del pittore non è arrivata purtroppo ai nostri giorni, al suo posto c’è una targa che ne ricorda l’ubicazione.
A Venezia in questo momento di agosto è un brulicare di turisti che riempiono calli e campielli di tutta la città e forse meno confusione la ritrovi proprio su questo lato e quindi, seduta ad un tavolino, fronte laguna di una terrazza, è proprio il modo giusto di vivere questa strana città.
Paolo, uno dei soci del ristorante, prepara il tavolo dove ad accogliermi noto il tovagliolo in lino con il nome ricamato, il poggia posate con il marchio, il bicchiere in vetro di Murano soffiato, tocchi che determinano il livello del ristorante. Un locale in cui si nota l’impegno e la dedizione di Giulio Antonello, che del Algiubagiò è uno dei fondatori, e che lo ha reso nel tempo uno scrigno di piccoli tesori di artigianato veneziano, un vero e proprio omaggio alla città e ai suoi artisti e artigiani. Questo locale risale agli inizi del 1900 ed è stato completamente restaurato nel 2010.
Nel 1970 infatti il locale, ricavato da uno spazio del giardino del palazzo Donà delle Rose, perde l’aspetto rustico da osteria e acquista le caratteristiche di un semplice Bar. Lo chiamano il “bar dei buranelli” perchè gli abitanti di Burano, quando smontano dal “battello” alle Fondamente Nove, prima di avventurarsi per Venezia, si fermano tutti in questo locale a fare “do ciacoe” (due chiacchere).
Il via vai dei mezzi pubblici veneziani crea un dondolio che culla anche il tuo pranzo, si perché ti ricorda che sei su palafitte cioè su una serie di piloni inseriti nel fondale della laguna e che quindi risentono del moto ondoso e qui il via vai dei mezzi non è male, ma al contempo sei su un pontone che ti porta a vivere la laguna.
L’arrivo del pane e burro, in attesa dei piatti, riporta l’attenzione sul cibo che sono venuta a provare in questo ristorante “acronimo”. Pane fatto in casa sia bianco soffice che ricercato ai diversi semi e farine, sia grissini tra cui quelli alla canapa e sfogliatine al pomodoro e al carbone vegetale. Il burro, nella ciotola di porcellana, è una schiuma dolce che subito si spalma sul pane.
Amuse bouche piccolo a forma di funghetto ti porta al palato il gusto di formaggi e la piccola cupola del funghetto e un insieme di semi di due colori.
“Allora come va la stagione?”
“Bene abbiamo un bel via vai di clienti sia a pranzo che la sera a cena. La terrazza è stata ingrandita, è leggermente spostata rispetto a prima e ci da modo di accogliere in questo periodo una buona clientela che desidera una cucina più raffinata.”
All’interno il ristorante è particolare, suddiviso com’è tra la parte bar all’ingresso e la parte sala con la luce dei bellissimi lampadari veneziani ed i tavoli veramente particolari, opera di lavoro preciso di artigiani veneziani. Le cassette delle bottiglie di vino dei vari marchi hanno creato dei tavoli lucidi e ricercati.
Ma anche i piatti che Daniele mi fa arrivare al tavolo lo sono anche se, com’è giusto che sia, sono frutto della venezianità.
Una quenelle di baccalà mantecato con una foglia di polenta disidratata al nero di seppia per ricordarmi la città e uno dei miei primi incontri con lui quando gli avevo chiesto di farmi provare il suo mantecato ed era al Vecio Fritolin, dove era rimasto molti anni per poi proseguire il suo percorso di chef, sempre in Venezia, in vari ristoranti d’hotel del centro.
È un anno che è arrivato in questo ristorante e la sua mano esce al primo, una spaghettata, meglio dei sottili fili di pasta fatti con la rapa rossa che ben si sposano ai gamberetti rosa, il tutto su una crema di lentistico ….deliziosi!
Cosa pensa la clientela straniera della proposta di cucina veneziana?
“Beh non sempre possono capire i sapori delle nostre isole, sapori di prodotti che coltivati su terra intrisa dal sale del mare ha un sapore particolare, allora bisogna cercare di spiegarlo”
Si infatti a tavola bisognerebbe sempre avere il tempo di spiegare un piatto per poter offrire al commensale il piacere della scoperta di sapori inconsueti e specie qui che con le nostre isole ci sono verdure particolari e prodotti unici, negli stessi germogli che guarniscono i piatti.
Già ricordare i sapori di un tempo per me è riimmergermi nei ricordi dei piatti di nonna e di mamma. Già la prossima volta chiederò una degustazione di piatti tipici veneziani, magari basici, ma così mi torneranno in mente profumi non solo del piatto, ma anche ricordi d’infanzia.
Uno spiedino di cernia viene ad aggiungersi agli spaghettini dolci, cremosi e colorati. Qui si gioca sull’abbinamento ad una cipolla rossa caramellata con la polpa della cernia scottata, un gioco tra il cremoso e il “saldo” della carne bianca del pesce. Il cetriolo, in due consistenze e colore, offre i tocchi di cremosità e croccantezza con il lime che gioca la sua parte.
Avevo chiesto piccolissime porzioni e giusto un breve incontro con la sua cucina, lui sa che mangio pochissimo e quindi mi ha poi voluto far chiudere questo nostro incontro con un sorbetto interessante. Al carciofo con menta e meringa alla menta con fiori, piccole zinnie colorate.
Un pranzetto per ritrovarsi non certo una degustazione della mano di Daniele che ho ritrovato con piacere.
Un posto che, alla sera all’interno, deve essere anche molto charmant e che proverò magari al mio prossimo ritorno a casa.